Metaxalone 60 Pills 250mg $109 - $1.82 Per pill
Goslar | Mannheim | Beilstein |
Connellsville | Miami Lakes | Chester |
Metaxalone Central Kootenay | Greater Vancouver | Broome |
I gelsi. Alberi tozzi. // Tronchi nodosi / avvolti / dall´´edera sempre verde. // Gelsi, / ceppi di tentacoli sottili / che pregano / rivolti al sole / opaco dell´inverno. // Gelsi, / sentinelle di guardia / per sorvegliare / i campi e i fossati. // Nascondiglio / per gli uccelli in estate. // Alberi antichi / che servono per alimentare / la fiamma dentro la stufa, / e tenere unita la famiglia. // Foglie di gelsi, / nutrimento per i bachi / che filano il bozzolo / per tessere la seta. // More di gelsi, / che spengono la sete / ai bambini, / che corrono scalzi / per i campi erbosi.
L´aratro / fende la terra / come un coltello. // Il contadino, piegato sul vomere, / calca con forza il manubrio, / affinché affondi. // Le briglie del cavallo, / bruciano, per lo sforzo / suo collo dell´uomo / al quale sono attorcigliate. // I solchi / si ergono allineati uno dopo l´altro, / come i denti del rastrello. // I corvi, i merli e i passerotti, / saltellano fra le zolle aperte e fresche, / alla ricerca / di qualche piccolo insetto. // Il sudore dell´uomo / cola copioso dalla fronte. // Anche il cavallo suda / e sopra la sua schiena / si è formata una schiuma bianca. // I muscoli del contadino / e quelli dell´animale, / sono un tutt´uno, / tesi come / le corde del violino, / fino a che il campo / non è terminato di arare.
Spazzola rigida / con alcune foglie / infilate negli aculei. // Schiena di aghi, / che si dondolano / camminando. // Girovago di strada / e di campagna. // Riccio serrato, / come l´involucro / della castagna. // Spazzino / necessario e naturale, / là dove l´uomo / non arriva. // Occhietti scaltri, / su di un musetto simpatico, / che lentamente / si nasconde / dietro una larga foglia / di lapazio, / a riposare.
Falce argentata, / che si cela / dietro i rami del susino. // Luna, / sottile e bugiarda, / ruffiana ed ammaliatrice: / cambia faccia incessante. // Alle volte impicciona / e bizzarra. // Compagna delle serate estive / e consigliera / nelle notti insonni. // I pittori e i poeti / si ispirano a lei, / per esternare, / in differenti maniere, / i loro sentimenti. // Luna a levante / e a ponente; / luna eterna. // La notte, / senza di lei, / sarebbe orfana / e malinconica.
Due fanciulli / rincorrono scalzi ed affannati / una farfalla. // L´insetto spaventato, / sembra impazzito, / mentre svolazza in tutte le direzioni. // Ad un tratto / la mano di uno dei bambini, / riesce ad acciuffarla. // Le ali della farfalla, / cosparse di colori, / emanano un fremito / alla mano, / che le imprigiona. // Gli occhi dei fanciulli, / dapprima compiaciuti, / si fanno / ora / malinconici; / un´occhiata di consenso / e la mano si spalanca. // La farfalla, / dopo aver avuto un attimo di esitazione, / si alza in volo incontro / alla libertà e alla vita, / depositando / nel palmo della mano / un pizzico di polvere bianca, / scrollata dalle ali. // Anche la vita / assomiglia ad una farfalla. // Però, capita alle volte, / che un dispiacere la carpisca. // Tuttavia con il tempo, / il destino si schiude / e lascia volare via / la farfalla, / depositando un pizzico di polvere di dolore, / per poter lottare.
La gente Casarsese è conosciuta con il soprannome "i Turchi", perché, anche se a primo acchito sembra non dare molta confidenza, si rivela molto generosa nell´aiutarti. è fra queste persone, che io mi sono "forgiata" e ho sentito il bisogno di scrivere: "infatti è togliendo via la buccia, che, solitamente sotto, si scopre il meglio".
In questo senso ritengo che, i nostri nonni siano stati le "radici" della nostra cultura, i padri la "pianta" noi invece siamo i "germogli freschi" indirizzati a proseguire su questa strada, che testimonia tutto quello che ci hanno lasciato le persone, che ci hanno preceduto.
"La Cossa": era una cesta utilizzata solitamente dalle nonne, che conteneva gli aghi, matassine di elastico, le forbici, i fili per cucire di svariati colori e poi ancora le spille da balia e i quattro ferri per lavorare i calzini e tutta la biancheria che necessitava di essere rammendata.
Così ho cercato di fare io, raccogliendo un po´ tutte le usanze e le tradizioni della nostra gente. Le ricerche effettuate mi hanno portato a contatto con delle persone dalle quali ho ricevuto lezioni di vita, alle quali non avrei mai immaginato di poter attingere.
Raccogliendo le parti più significative dei discorsi, si scopre l´anima della nostra gente, che è "schietta" forte e sana.
Anellina Colussi
Nonna Caterina mi ha raccontato della prima volta, che è andata al cinema. "Sono entrata in questa grande stanza buia, mi sono rivolta ad un uomo con una torcia in mano, chiedendogli dove avessi potuto sedermi ed egli, con educazione, mi ha accompagnato. Nel frattempo pensavo che, con tutti i soldi che avevo speso per il biglietto, avrebbero anche potuto accendere la luce! Qualche attimo più tardi iniziò il film, che venne proiettato su di un telone bianco. Mentre gli attori recitavano, io cercavo di rispondere loro, ma un uomo seduto accanto a me mi chiese di tacere. Che maleducato, pensai! Ad una scena si intravide un treno dirigersi verso di noi spettatori: ho preso tanta di quella paura, che mi sono accovacciata fra le file di poltrone, rimanendo così fino al riaccendersi delle luci. Fuori, all´uscita dal cinema, mi hanno chiesto, se mi fosse piaciuto il film. Io risposi che avevo visto solo piedi e gambe".
- Una mattina andò a fare la spesa e chiese al banco: - ""Oggi vorrei quelle cose, che mettono gli uomini alla domenica". - Si riferiva alla pasta a forma di farfalla!
- Un giorno le chiesero: - "Giuditta quante anatre hai nel tuo cortile? "- e lei, contando su di una mano, rispose: - "Guarda, due volte tre e due volte due, e ora fai tu il calcolo".
- Una signora le chiese di raccontarle il giorno del suo matrimonio. "Ci siamo sposati alle tre e mezzo di notte (perché, essendo incinta, a quei tempi si usava così). Durante tutta la mattinata ho aggiustato da sola alcuni sacchi in una stanza. Dopo pranzo mio marito è andato nel campo con suo padre ed io ho fatto una visita in cimitero". Questo è stato il mio "indimenticabile" giorno di nozze.
- Ormai anziana, questa donna è stata operata di appendicite. In ospedale le infermiere passavano ogni giorno, per riordinarla e pulirla, ma lei non voleva, che le alzassero il lenzuolo, e le ammoniva dicendo: - "Non sono mica una di "quelle donne" io!" - L´operazione era riuscita perfettamente ed ella contenta, durante la visita del primario, gli si rivolse, dicendo: - "Signor dottore giacché mi ha guarito, non avendo soldi per un regalo, le auguro che viva a lungo, come un palo d´acacia". - Ed egli rispose: - Nonnina, questo è il più bell´augurio che io abbia ricevuto in tutti questi anni.
Bisogna dire che il popolo friulano antico era molto superstizioso. Ci sono state trasmesse molteplici usanze e credenze. Facendo una piccola ricerca, ne ho raccolto alcune.
- Il giorno dell´Ascensione, non bisognava raccogliere nell´orto le verze, altrimenti si sarebbero riempite di bruchi.
- Non si poteva seminare fagioli al venerdì perchè si riteneva potesse procurare loro il verme.
- Se le chiacchiere della gente, si riferivano al fatto che in quella casa potesse abitarci una strega, quando ci si passava davanti, si dovevano incrociare le dita, per fare gli scongiuri.
- Per far capire che una ragazza si stava lavando all´interno di una stalla, si appendeva alla porta uno zoccolo diritto ed uno al rovescio.
- Se fosse accaduto di ascoltare il canto della civetta, si riteneva fosse portatrice di brutte notizie.
Accadeva spesso di tagliarsi. I nostri nonni, solevano appoggiare sopra la ferita una ragnatela, oppure una presa di tabacco da annusare. Se capitava di essere nella stagione in cui le bisce mutano la loro pelle, la si raccoglieva oramai secca, la si riduceva in polvere e quindi se ne spargeva una parte sopra il taglio, affinché si asciugasse e si rimarginasse.
Una volta la gente soleva calzare zoccoli o "dalminis" (specie di zoccolo, intagliato interamente in un unico pezzo di legno), pertanto i malleoli erano sempre scoperti e intirizziti; stessa cosa dicasi per le mani. All´interno delle case faceva piuttosto freddo e nelle chiese peggio ancora. Si formavano così i geloni, che provocavano un fastidioso dolore. Per recare sollievo, si pestavano alcune foglie del cavolo cappuccio e della cipolla fresca. Le si mescolava con dell´olio di ricino e si ungeva la parte dolorante. Se oltre ai geloni si formavano anche delle screpolature, si doveva camminare scalzi sopra la neve (che in quegli anni cadeva copiosa), la quale mi hanno assicurato produceva un certo sollievo.
In questo mio libro ho voluto raccogliere le descrizioni del modo di vivere, del periodo della mia giovinezza, cercando di far immergere in questo mondo, la gente più giovane. Comunque per le persone che hanno vissuto questi anni, sarà come tornare a rivivere quelle situazioni della semplice di allora. In copertina, mi è piaciuto mettere un autentico spaccato di vita. Quella bambina a fianco la vite, con la manina che scruta lontano, sembra che voglia avvicinare col pensiero i ricordi degli anni nei quali la vita quotidiana, anche se non facile, era scandita dalla schiettezza e dalla autenticità. Spero di essere riuscita nell´intento di farvi assaporare sensazioni diverse.
Tradurre in italiano la parola dis´ciapinela (in scjapinele, in scjapine-lis, di scjapinele) significa perdere tutta la poesia dell´espressione friulana: che brutto e poco espressivo è "in peduli" o "senza scarpe"! Ma, anche, la traduzione ci porta fuori strade, è fuorviante: perché il titolo di questo libro di Anellina Colussi non manifesta una situazione fisica, ma una delicatezza dello spirito, dell´Essere. è un viaggio del pensiero e della scrittura nella memoria, un camminare in punta di piedi sulla strada del ricordo, nei suoi sapori più fragranti, senza rumoreggiare, senza gridare, senza urlare contro il tempo che passa e che misura il ritmo delle cose che mutano: "di´sciapinela", appunto. Le parole, i fatti, le fotografie, le storie qui dentro sono testimonianza di vita sociale e comunitaria, e anche se ogni tanto la figura di una persona viene inquadrata in primo piano, ciò succede perché quella donna o quell´uomo rappresentano una situazione convissuta, l´anello di una catena collettiva. La dimensione individuale ha valore se è ben collocata nel fluire delle storie di tutti, storie che non hanno tempo, perché nascono "allora, quella volta", vengono raccontate di generazione in generazione, di epoca in epoca, entrano nelle esperienze del paese, del villaggio, del borgo, divengono patrimonio generale. Parimenti succede agli avvenimenti della realtà, che di bocca in bocca mescolano i confini di leggenda e storia: la storia raccoglie sempre un poco di leggenda, ma le leggende contengono sempre un fondo storico, perché questo procedimento è funzionale alla memoria collettiva, alla cultura della comunità, alla identità non solo del villaggio, ma di tutto il popolo, di tutta la nazione. Questo è proprio di una società tradizionale, in cui la parola da ascoltare è quella dei nonni, dei genitori, degli adulti, dei compagni di gioco, di scuola, di dottrina, del sacerdote, di coloro che raccontano storie nelle stalle durante la fila, dell´emigrato che torna e riferisce le cose che ha visto... tutto un mondo che la nuova società globalizzata, tecnologica, individualista, rifiuta, a favore di un bombardamento di parole che arrivano dalla televisione, da internet, dalla pubblicità, dai maghi e da tutta quella sequela di personaggi che imboniscono la gente. Per fortuna, disponiamo anche di numerose proposte e di nuove opportunità di formazione, di momenti di riflessione e di arricchimento culturale, spirituale, linguistico, di aggiornamento. Il rischio (se siamo consapevoli che il rischio c´è) è doppio: di fare tutto un miscuglio, senza nessun valore di orientamento, ovvero di dimenticare ogni identità per rincorrere tutte le mode e cancellare il passato. Si tratta di trovare un equilibrio, di procedere con piedi fermi e saldi, di coltivare le radici, di guardare in viso il futuro, il presente, il passato, di avere la possibilità di scegliere: ma per poter scegliere, dobbiamo disporre di proposte, strumenti di conoscenza, voci che ci parlino, tesori di parole, di racconti, di esperienze, di espressioni, di sapori. Anellina Colussi ha scelto di farlo, per non lasciar scorrere il tempo inutilmente, senza raccogliere almeno qualche brandello di un mondo che è sì perduto, ma non interamente: perché se vive nella memoria, se continua a lanciare segnali, è in qualche maniera produttivo e giunge a moltiplicare le offerte culturali, i rapporti tra le generazioni, i confronti e i paragoni tra la gente di qua e coloro che a vengono da fuori. Nel libro entrano così racconti e storie, tradizioni, avvenimenti della realtà, sempre con un corrispondente apparato di fotografie, che no hanno solo la funzione di illustrare il testo, ma che sono strumenti di conoscenza. I materiali raccolti sono sistemati in un ordine preciso, che riguarda il tempo: il tempo dell´anno, il fluire dei mesi e delle stagioni, l´inverno e la primavera, i lavori nei campi e le feste, il Natale e la Pasqua, la scuola e le persone, i bambini e gli adulti... Ne risulta un´opera di recupero di testimonianze, di cultura popolare e di storia dei nostri giorni, ma anche un´opera di letteratura, perché l´Autrice è una "del mestiere", che in tante altre occasioni ci ha offerto pregevoli poesie e pagine di buona scrittura. Abbiamo poesia anche qua dentro: quasi un riposare della prosa, un ascoltare una nuova voce al cambiare delle stagioni, un guardarsi dentro e un sentire i canti, le musiche, i suoni che ci giungono dal mulino, dall´acqua, dal vento, dalle foglie, dai bambini. La lingua usata è quella naturale, friulana, nella sua varietà di Casarsa: une varietà che abbiamo imparato a leggere da Pier Paolo Pasolini e da quelli dell´Academiuta, da Castellani e dai "Quaderni Casarsesi", solo per fare qualche nome - del resto nomi di valore! Il friulano di questo libro è notevolmente ricco, pieno di parole autentiche e originali, tesoro schietto di une tradizione che prosegue e che si aggiorna. La vivacità delle varianti locali, parlate dalla gente, messe per iscritto, lette, è la base di qualsiasi politica linguistica: une lingua comune, com´è la koinè, ha sempre un rapporto con le varianti! Così è per l´italiano (l´"italiano regionale"), così è per il tedesco, così è per lo sloveno, così è per il catalano. Ma il rapporto può stabilirsi se le varianti si fanno conoscere e si confrontano sempre con la lingua comune: per questo, un libri come questo al è importante, ed è importante che venga letto non solo a Casarsa, ma in tutto il Friuli.
Pier Carlo Begotti Vicepresidente della Società Filologica Friulana
- Signore benedetto, cos´avete oggi bambini, che non potete star fermi, sentite forse che cambi il tempo? - dice mia mamma, spalancando la porta della stufa, per infilare il pezzo di legno. Il fuoco che si era quasi spento, ritorno a prendere con vigore e sembra quasi possa scappare dal buco della stufa. Il papà porta il paiolo per la polenta con acqua e sale e togliendo tre - quattro cerchi della stufa, lo appoggia dentro fino dove inizia la fuliggine. Poi prende il secchio e va a mungere le mucche. L´aria scuote gli alberi, fischiando tra le imposte. La nonna seduta, intenta a sferruzzare, senza alzare la testa e guardando di soppiatto, dice: - se smette il vento, vedrete che nevicata! Me la sento anch´io coi miei dolori, non solo i bambini! - mia madre col ramaiolo mescola la polenta che sta cuocendo e le bolle spaccandosi fanno bocche di fumo come le tirate di sigaretta. Io figlia maggiore, allargo la tovaglia sopra la tavola, per apparecchiarla. Il fratellino nel carruccio (era formato da due guide parallele tra le quali scorreva nei due sensi la tavoletta forata che sosteneva il bambino nei primi passi) incomincia a brontolare e trotterellando avanti e indietro, batte i piedini sopra l´asse. Allarga le braccine per invitare a tirarlo su e la madre non può sottrarsi a questo tenero invito; lo prende e se lo stringe al seno. Si ode lo scalpitio degli zoccoli del papà che si avvicina. Ha il secchio raso di latte appena munto, e dice: - sapete che ha iniziato a nevicare? - con un grido d´allegria noi bambini ci precipitiamo addosso al vetro della finestra, schiacciandovi il naso per guardare meglio. la nonna togliendosi gli occhiali con fare appagato le scappa da dire: - eh, l´avevo previsto io, quasi fossi una maga! Bimbi, ricordatevi che "sotto la neve pane, sotto la pioggia fame". - i fiocchi di neve, grossi come bocconi di mollica di pane cadono sempre più fitti. A terra si sta ammucchiando pian piano, abbracciando e ricoprendo tutto quello che trova. Ora il cortile pare vestito a festa, candido come una sposa che attende solamente di essere guardata. I pali appuntiti delle viti, ammucchiati in un angolo, così coperti di neve sembrano scalini di marmo chiaro. Adesso che ha smesso di nevicare, noi bambini siamo già corsi fuori, per gettarsi palle di neve. I nostri stivaletti colorati lasciano ad ogni angolo, pieno di piccole impronte. E´ proprio vero che la neve porta allegria a tutti e camminandoci sopra sembra di tornare bambini.
- Forza bambini, andiamo sù in solaio; per stasera dobbiamo aver sgranato tutto il granoturco. - Così ci ha detto nostro padre. Mentre saliamo le scale, noi bambini ci facciamo dispetti e facciamo due scalini alla volta tenendoci al passamano di ferro della scale. Aperto il catenaccio della porta, entriamo. - Corpo di Bacco, quanto mais c´è ancora da sgranare - diciamo in coro. Ma tanto si sa "chi ben comincia è a metà dell´opera". Uno di noi carica il cesto di pannocchie, il papà lo rovescia dentro la macchina per sgranarle e l´altro gira la manovella. Da un lato scendono i granelli, mentre dall´altro cadono i tutoli, spinti dagli ingranaggi. Il rumore della macchina è assordante e se ci si deve parlare bisogna farlo gridando, solo così ci si capisce. Trascorso un po´ di tempo, il lavoro è quasi completato. Di pannocchie ne rimane solamente un mucchio in un angolo del solaio. - Fermi! - intima il papà - aspettate che prenda il forcone dai quattro denti per rovistare adagio. - Solleva le pannocchie da un lato e poi le spinge dall´altro, alla fine esce correndo un grosso topo spaventato che si arrampica su per il muro. Raggiunge le travi del tetto, scomparendo poi alla nostra vista. Il papà dice: Sotto quel mucchio di pannocchie, dovrebbe esser il nido dei topolini. - Terminiamo velocemente il lavoro così li potremo vedere. Effettivamente come aveva previsto il papà, sotto il mais troviamo un bel mucchio "capelli" di pannocchie. Ci accovacciamo per osservare meglio: il topo femmina ha proprio fatto un buon lavoro. Il nido richiama la forma di una scodellina; sicuramente al suo interno i cuccioli staranno caldi. Allarghiamo delicatamente i "capelli" ed al centro, acciambellati, uno accanto all´altro, troviamo sei topolini di colore grigio sul dorso e rosa la pancia. Non sono più grandi di un ditale. Le bestioline sono ancora cieche, senza pelo e si muovono adagio come al rallentatole. Stiamo per un po´ a guardare incantate. Nel frattempo la nostra gatta è salita fin qua sù al solaio, e raggiungendoci si avvicina al nido con fare incuriosito a quei deboli squittii. Nostro padre dice: - Eh qui ci sarebbe cibo per lei! - Noi lo guardiamo addolorati. Egli, sbirciando le nostre facce sconvolte sbotta: - Su dai, lasciamoli lì, così quando ce ne saremo andati, la loro madre tornerà ad accudirli. - Felici di questa saggia decisione, prendiamo in braccio il gatto e scendiamo in fretta le scale. Saltellando dalla contentessa non vediamo l´ora di informare nostra madre di ciò che abbiamo visto quel pomeriggio.
Lontano si ode il trotto ritmato del cavallo che ritorna a casa. Il sole sfinito dalla lunga giornata estiva, lentamente cerca un varco per nascondersi a riposare dietro le montagne. Il papà stacca il bilancino dal carro ed il cavallo da un´occhiata all´indietro come a voler ringraziare di averglielo tolto. Noi bimbi lo informiamo che la cena è pronta. - Bambini correte a vedere che cosa ho trovato nel campo - dice sorridendo mio padre. Con un piede appoggiato sopra al timone del carro salta agilmente dentro. Appoggiato sull´erba morbida come il cotone, c´è una straccio; egli solleva quel piccolo fardello e scende dal carro. Lo apre e… meraviglia fa capolino una testina implume, che con fatica riesce a sorreggersi. è un cucciolo di merlo, trovato a terra accanto alla vigna. - Oh papà quant´è carino. - Delicatamente uno alla volta cerchiamo di accarezzare quella testina vacillante. - Senti vai a prendere la gabbietta nella stanza degli arnesi, che lo mettiamo dentro. Tentiamo se sarà possibile di salvarlo. - Nel frattempo mia madre ci ha raggiunti, e sentendo questo trambusto dice: - Proviamo a sistemarlo accanto alle uova che abbiamo sotto la lampadina, che ne dite? - Così facciamo. Però di quel piccolo merlo non ricordo più nulla. Ripenso a quel ricordo della mia vita ormai lontano e mi par di rivedere mio padre, forte e vigoroso, sopra il carro accarezzare con dolcezza quel uccellino.
Rintocca la campana della prima messa del mattino. Però non mi trova addormentata perché io, bambina raggomitolata nel lettone di mia nonna, sono sveglia da diverso tempo. Attendo di vedere quello che, nella notte, mi ha portato Babbo Natale (ussielut dal bosc). Faccio capolino fuori delle coperte di piuma, per indovinare se sopra il burò dentro le scarpe, ci sia un mucchietto di qualcosa. I scuri socchiusi delle finestre, lasciano intravedere poca luce. Ma è sufficiente quella fenditura per accorgersene. Faccio un balzo dal letto, scalza, ed in camiciola di flanella a fiori mi precipito vicino. Guarda quanta roba in riga! Due arance, un mucchietto di arachidi, due pezzetti di torrone e … meraviglia due paia di calze colorate. Raccolgo tremante tutto questo "ben di Dio" e mi avvicino alla nonna per mostraglielo. Lei, che prima fingeva di dormire (ma l´ho capito anni dopo), mi fa tanta festa e poi corro in camera dai miei genitori per informarli che quest´anno Babbo Natale è stato molto magnanimo con me. Oggi andrò a messa con le calzette nuove, che felicità! Nel mentre si è fatto giorno e fuori la brina è così bianca che pare abbia appena nevicato. Guardando fuori dalla finestra, vedo mio padre con il secchio del latte, le maniche della camicia a quadri arrotolate all´insù e la giacca appoggiata sulle spalle, che và a mungere; camminando, lascia a terra sopra la brina, l´impronta dei zoccoli che scricchiolano sulla ghiaia. Con l´ondeggiava del passo scuote il secchio facendo cigolare il manico. In lontananza si ode il richiamo delle mucche. Uno stormo di passeri svolazzano attorno ad un mucchio di briciole di pane rubandosele uno con l´altro; quel cinguettare mette allegria. Mia madre in cucina ha già acceso il fuoco e quel crepitio dei ceppi, allarga il cuore facendomi provare una sensazione di calore. Pian piano uno alla volta, scendono dalle camere anche gli altri miei fratelli, ognuno col regalo di Babbo Natale stretto al petto. La nonna ha messo sul fuoco il brodo di gallina ruspante ed il suo profumo si espande dappertutto. Fuori si sentono le campane a suonare a distesa ed il papà, dopo aver fatto colazione e mentre ascolta alla Radio la trasmissione per i contadini"Vita nei campi", si rade la barba davanti allo specchio appeso ad una finestra. Oggi sì che è elegante, tutto vestito a festa, anche perché ai piedi calza le scarpe che gli ho lucidato io. Rientrata dalla messa vado a cambiarmi i vestiti, perché devono durarmi al lungo. Mentre do una mano nelle faccende domestiche, sento bussare alla porta della cucina: è mio zio che è venuto a far visita alla nonna. Si accomoda sulla poltrona color verde muschio (è un po´ consumata, ma serve ugualmente) ed inizia a conversare. Nel frattempo riempio una scodella di brodo con sopra formaggio grattugiato e glielo offro. Già, è proprio vero che nelle feste di Natale ci si sente più buoni, sarà anche perché in questo periodo mi ritornano alla mente briciole di ricordi di quando eravamo bambini. Ricordi, che invece di cancellarsi col tempo, riaffiorano più vivi che mai.
In una Messa per gli emigranti, un sacerdote ha fatto una predica bellissima. è partito con una citazione dal Vangelo, in cui l´Angelo da a Maria l´annunciazione che lei aspetta il Figlio del Signore. E Maria, passato qualche giorno, parte e va a trovare sua cugina, Elisabetta. Vedete, disse quel prete, la condizione del genere umano è questa: andare in giro, quella della Madonna, di essere in questa terra ma di essere come in esilio, di prestare il corpo per i disegni del Signore e - soprattutto- di essere qua per prepararsi alla nostra vera patria: quella del Ciclo, quella dell´altro mondo. E allora, siamo tutti emigranti, su questa terra, siamo tutti che vogliamo bene a una patria, ma sappiamo che la nostra patria è più di una, una patria dove siamo e una patria dove vorremmo essere o vorremmo andare. Ma anche le patrie, in qualche modo, emigrano: quelli che partono, portano sempre in un angolo del cuore un pezzo della patria che lasciano e la fanno vivere dove si trovano a vivere. E se un domani tornano, certamente porteranno in un altro angolo del cuore un pezzo di quella nuova patria che hanno conosciuto via per il mondo. La vita degli emigranti è tutto un combinarsi di sentimenti, di emozioni, di esperienze, di vita, di lavori, di storie. E, per questo, le patrie non sono mai uguali, anche le patrie cambiano. La patria che uno torna a trovare dopo anni non è più la patria che ha lasciato: è quella, ma è anche nuova, è quella ed è un´altra. In questo mondo di identità che si formano e di identità che si scompongono, in questo mondo di andare e tornare, di emigrare e di immigrare, nascono e crescono le storie: storie di donne e di uomini, di bambini e di famiglie, di persone e di paesi interi, di individualità e di comunità. E qualche volta, le storie diventano storie raccontate, storie scritte, racconti, poesie o romanzi. Ebbene, proprio un romanzo è il libro che Anellina Colussi ha scritto per lasciare il ricordo dell´emigrazione: ma non una emigrazione qualsiasi, no, l´emigrazione con tanto di nomi e cognomi, con tanto di persone vere e vive, persone che si possono identificare. E un romanzo popolare, nel senso giusto e pieno della parola: popolare, in primis, perché racconta una storia (o meglio, più storie dentro di una) di popolo; popolare, perché è scritto per essere letto e capito da parte di tutta la comunità; popolare, perché ha uno stile piano e discorsivo, facile e semplice. E anche se la storia raccontata qui ha una sua drammaticità, tuttavia viene trattata da Anellina Colussi con mano leggera: è come se un pittore usasse un pennello con sfumature di colore delicate e tenere, che poi sono proprio quelle che restano, che maturano nell´anima, che fanno ricordare un quadro, una poesia o una pagina di un romanzo. Se noi leggiamo II Migrant con questo spirito, con quest´occhio, con questa disposizione, forse riusciamo a capire meglio non solo il mondo dei protagonisti del romanzo, ma anche il mondo nostro, quello che circonda il nostro vivere.
Pier Carlo Begotti Vicepresident Societât Filologjiche Furlane
A tutti gli emigranti come mio padre, che sono stati o lo sono ancora sparpagliati per il mondo e a tutte le loro mogli, come mia madre, che li hanno attesi, sole con molte preoccupazioni ma con tanto coraggio.
A costoro dedico questa mia opera letteraria, poiché in seguito al loro enorme sacrificio, ci hanno dato la possibilità di migliorare la nostra vita.
Descrizione della famiglia protagonista del breve romanzo.
Angelo era divenuto il capofamiglia nell´anno in cui era ritornato a casa, dopo essere stato fatto prigioniero in Germania, durante il secondo conflitto mondiale. Durante gli anni bellici gli era venuto a mancare il padre, uno zio e la figlia più piccola di quest´ultimo. La conseguenza degli eventi non gli aveva dato altre soluzioni che accettare d´ essere il responsabile dell´intera famiglia.
Qualche tempo più tardi, dopo aver riflettuto a fondo, decise di maritarsi con Paola, non senza aver prima parlato con le rispettive famiglie d´origine. Paola non aveva ancora compiuto vent´anni quando sposò Angelo.
In questa famiglia patriarcale c´erano: due vedove e molti figli orfani di guerra. Vivendo la medesima situazione, trovavano conforto l´uno con l´altro.
Finalmente il grande bastimento con un lungo e malinconico "addio" aveva iniziato la sua rotta muovendosi piano piano come un´enorme aratro solca la terra, così la nave iniziando il suo viaggio aveva lasciato dietro a se una lunga scia di spuma bianca che si rotolava nell´acqua. Angelo era sceso al piano terra in terza classe nel posto assegnatogli per sistemare le cose che aveva portato con se all´interno della valigia. D´ora in poi avrebbe visto un unico tipo di paesaggio: l´oceano e nient´altro. Lui, uomo di pianura e di terra ferma, avrebbe fatto sicuramente fatica ad adattarsi a quel cambiamento. Nel frattempo, in paese, Paola aveva coricato Ginetta nella culla accanto al suo letto preparandosi per la notte. In camera, pensando a suo marito, aveva iniziato mentalmente l´attesa di una sua prossima lettera dal Canada. I giorni trascorrevano uno dopo l´altro e Angelo aveva conosciuto molte altre persone emigranti come lui. Tutti questi passeggeri della nave, parlando con loro, s´era accorto che avevano vissuto la stessa sua condizione economica e quindi avevano scelto l´America per gli stessi suoi motivi. Per sua fortuna non soffriva il mal di mare, al contrario di molti che non stavano bene.
Erano trascorsi circa una ventina di giorni e il postino aveva fatto recapitare un telegramma. Sua suocera, Antonietta, aveva letto con evidente emozione, che il figlio, dopo tredici giorni (questo il tempo complessivo del viaggio in nave) era arrivato in Canada. Poco tempo più tardi anche Paola aveva ricevuto una lettera da suo marito e alla sera in camera, da sola, l´aveva aperta. Lo scritto raccontava che il viaggio era stato lungo e faticoso. Lo zio gli aveva trovato un lavoro a turni negli altiforni di un´azienda. Avrebbe vissuto da lui finché non avrebbe trovato una sistemazione migliore. Infine, pensava a lei e alla figlia. A quest´ultima, secondo il suo desiderio, doveva darle tanti bacioni da parte sua. A piè pagina della lettera c´era un post scriptum: "Riguardati e non preoccuparti per me: io sto bene." Ripiegata e riposta all´interno della busta, l´aveva sospinta sotto il suo cuscino quasi a farle compagnia. Poi aveva toccato con l´indice della mano l´acquasantiera, ed aveva fatto un segno di croce sistemandosi, dopo aver baciato la figlia, sotto le coperte cercando di prendere sonno.
Nel medesimo giorno Angelo era andato a messa in quella chiesa frequentata da molti italiani, e lì aveva pregato con il cuore: «Signore aiuta me e la mia famiglia in questo santo giorno». Poi aveva aperto il portafoglio e preso con se l´immagine del Sacro Cuore che gli aveva donato sua madre prima della sua partenza per il servizio militare. La medesima immagine l´aveva sempre conservata con molta devozione. L´aveva portata con se anche quando era stato fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Germania durante il secondo conflitto mondiale. Quel santino, però, lo aveva protetto e riportato a casa. Da quella volta se lo portava sempre appresso. Dopo aver baciato con fede l´immagine sacra, l´aveva riposta al suo posto riflettendo: «E´ incredibile quanto si apprezzi di più la sua gente quando si è lontani da casa e soprattutto dal nostro caro Friuli». Fuori dalla chiesa aveva notato due giovani che a braccetto ridevano spassosamente mentre lui s´abbottonava meglio il giaccone e premuto il berretto affinché stesse più aderente al capo, aveva fatto un passo indietro con i suoi pensieri a quel giorno nel quale aveva visto per la prima volta Paola. Era giunto con i coscritti sopra ad un carro bardato a festa con delle frasche, per fare il giro dei paesi limitrofi. Un piccolo gruppo di ragazzine stava seduto accanto alla fontana della piazza a discorrere. L´allegra compagnia, vedendole, s´era fermata dinnanzi a loro scherzando assieme e attaccando bottone con tutte.
Angelo era giunto a Genova durante la mattinata. Aspettata con impazienza la valigia (il baule, diversamente, lo aveva spedito con un autocarro), era salito sul primo treno che si dirigeva verso casa ed era partito. Il viaggio gli era parso lungo, quasi come i tredici giorni di nave per ritornare dall´America! Durante la strada aveva riflettuto sull´incontro che avrebbe avuto con i suoi figli. «Chissà se saranno felici di rivedermi, in fondo per loro sono quasi uno straniero» rimuginava nella sua mente. Il treno macinando chilometri, si avvicinava sempre più al suo paese. Nel frattempo stava calando la notte e lui era riuscito a malapena a riconoscere la sagoma dei gelsi: antichi alberi della sua terra. Viaggiando aveva scorto delle case da lontano le quali dalle loro finestre emanavano una luce gialla e calda che faceva intuire la presenza di qualche famiglia al suo interno. «Mia moglie, i miei bambini» aveva detto spontaneamente. «Vedrete che da adesso in poi non ci lasceremo più» aveva ragionato a voce alta. Poi, girando la testa dall´altra parte s´era accorto di un giovane sedutogli accanto che lo stava studiando e probabilmente aveva pensato: «Questo uomo parla da solo, non deve essere molto in sé!». Con una schiarita di voce e cercando di darsi un contegno aveva fatto finta di nulla guardando fuori dal finestrino.
Ricominciando a lavorare i suoi campi avvertiva la gioia di questo mestiere, adatto a lui, che svolgeva con molta passione. Proseguiva così l´eredità lasciata dal padre e da suo nonno molti anni addietro. L´odore delle zolle di terra dissodate dall´aratro era molto particolare, lo faceva sentire tutt´uno con la natura. Pian piano la famiglia aveva ricominciato a vivere in modo completo: chiudendo quel frammento di cerchio che era rimasto aperto per alcuni anni. Attraverso i sacrifici di Angelo ancora in giovane età, emigrato fuori per il mondo ed aggiunti a quelli della moglie, giovane madre, non dimenticando l´ausilio della famiglia del marito, si erano conclusi. Con il trascorrere degli anni s´erano sistemati meglio anche economicamente. I bambini crescevano, e alla loro famiglia se n´erano aggiunti altri due: una femmina ed un maschio. Una volta divenuti ragazzi avevano avuto l´opportunità di studiare, non dimenticandosi mai che se lo potevano fare era unicamente grazie ai loro genitori. Tanti anni erano trascorsi, tanta acqua era passata sotto i ponti e Ginetta sposata, aveva dato al mondo, una bella bambina.
Anellina ci avverte, che il suo racconto si svolge negli anni '60 - '70 del secolo scorso, quando nel nostro Friuli, dopo il dramma delle guerre e le sofferenze che le accompagnavano, cominciavano i primi spiragli culturali e materiali, in grado di prefigurare un futuro, degno di una sopportabile convivenza.
La vicenda di Dosolina, in qualche maniera protagonista della vicenda, è narrata in quattordici capitoli, che portano ciascuno un titolo che fa da cornice alle persone, ai momenti, alle situazioni, alle aperture.
Anellina sente in maniera viva il fondo della cultura popolare. Con gusto narrativo ci presenta il vivere concreto, semplice, sapiente delle persone. Il linguaggio, che utilizza, è quello di ogni giorno, desideroso nel contempo di dare dignità a quello che è "ordinario", fornendolo di una continuità attraverso la memoria del passato ed arricchendola con la fiducia del presente.
Dopo queste osservazioni generali sento il dovere di evidenziare qualche cosa dell'anima, che costituisce il fondo di questo racconto.
La figura di Dosolina e l'albero del melograno mi sembrano riferimenti decisivi, di cui Anellina vuole farci dono. Nel tramonto della civiltà contadina, l'autrice manifesta una posizione nostalgica per la figura femminile di Dosolina la quale, anche se vedova, ha sostenuto in maniera egregia l'intera sua famiglia. Essa ha raccolto e custodito la sapienza severa ed operativa dei nonni e dei genitori, come fondamento per superare i guai della vita. Il suo itinerario viene vissuto soprattutto come dovere, anche se addolcito di qualche legittimo e naturale piacere, comunque sempre a servizio di ciò che la vita promette, ma non mantiene! Il "benessere", che appare come progresso economico, pur essendo per certi versi "benedetto", non può però essere una schiavitù, che corrode il modo di vivere sapiente, che dovrebbe accompagnare lo svolgersi della storia di tutti. Si può pensare che Dosolina sia il simbolo di un Friuli in questo caso al femminile, che nasconde una forza non appariscente, ma integrata in un realismo concreto, misurato sulle vere necessità della famiglia e pronta a difendersi dagli scarti del vivere collettivo. La stessa vedovanza diventa stimolo a scommettere sulla vita senza riserve. E siamo al simbolo della pianta di melograno, piantato dal nonno sulla soglia della casa. "Vicino al muro, che dà a mezzogiorno… legato in una maniera tale da poter crescere al largo, come una mano con le dita aperte… curato, bagnato sempre, ha potuto dare i suoi frutti a tutti… era così diventato il simbolo della nostra famiglia". La scoperta di un foglio di quaderno a quadretti, scritto a matita dall'avo, assume il valore di un vero testamento, una fiduciosa scommessa sulla vita. Il capitolo tredicesimo porta questo titolo: "L'inizio della modernità". Mentre Dosolina, oramai vecchia, si prepara alla fine dei suoi giorni, figli e nipoti entrano in questo mondo, dove la gente non si ritrova più nella stalla con le mucche. Si pongono le vetture, che a poco a poco ogni famiglia finiva per acquistare. Dosolina, fra sé e sé, pensava: "Guarda come la vita presenta l'altra faccia della medaglia! Correndo in macchina, non si percepiscono più le cose, che si presentano davanti agli occhi. Vince sempre la fretta". Il mutamento rapido del costume ci ha investiti con prepotenza. Pensare seriamente a quello che stiamo perdendo, può forse aiutarci a vivere il presente in maniera più matura. Non si può correre tanto rapidamente: è necessario avere del tempo, perchè la nostra interiorità possa integrare il reale e ci impegni al punto di salvaguardare la nostra vera ed autentica identità. Messo a punto con adeguata pulizia il luogo dell'albero del "pomogranà", Dosolina lo vuole osservare per l'ultima volta e, vedendo il suo tronco vecchio e groppoloso, pensa che le assomiglia perfettamente: "… è un tassello della mia vita - essa conclude - ed ogni frammento di ruvidità richiama la strada della vita che ho fatto fino al presente, è una carta geografica". L'ultimo frutto, raccolto dal ramo più accessibile alla sua condizione, la foto del suo Celso in divisa di alpino e soprattutto il foglio nel quale si nota una consegna della parte migliore del suo cuore a quelli che restano, sono descritti con una carica enfatica, che commuove. Anellina, con questo libro, ci invita a osservare in profondità. Il suo racconto può diventare un importante programma, che va nutrito ogni giorno, senza perdersi in idealismi utopici e velleitari. Noi siamo una nave nel mare del nostro destino. E' importante non perdersi e resistere con forza, senza mai arrendersi. Una zattera, che ci salva, ci è garantita: una Mano si fa vicina sempre, per darci orientamento e forza. Senza voler forzare i convincimenti di ciascuno, il contesto di tutto il racconto ci richiama il mistero di Dio e la fede cristiana che ha nutrito Dosolina, la sua famiglia, i nostri paesi. Vi è una Mano che riempie di senso la mente, il cuore, l'agire di tante persone, anche nel nostro tempo. "State insieme e voletevi bene" sono le ultime parole di Dosolina. E' un piacere leggere il racconto, nutrito di cordiale finezza. Ad esso si accompagna, con rispettosa discrezione, l'invito a non dimenticare questo grande impegno.
Presidente Associazione Culturale
"Padre David Maria Turoldo"
Teologo e Critico letterario
Mani generose
si ravvivano i capelli
mentre gli occhi
seguono qualche ricordo;
forse dei tuoi bimbi
quando con tenerezza
accarezzavi
le guanciotte
tonde e paffutelle.
Mamma,
primo nome da pronunciare
e mai da scordare.
Gli anni volano
ma le rimembranze
affondano nel cuore.
Nascosti fra le tue rughe
ci sono i momenti sereni
e quelli tristi.
Il ridere a tratti sommesso
a tratti contagioso,
riempie la stanza di sole
anche se fuori soffia
un vento gelido
e scroscia la pioggia.
Pettinami ancora
lentamente
come una cantilena
i ricci un po’ arruffati.
Non fa niente
se, senza indugio
si riavvolgono
attorno alle tue dita come anelli
che non vogliono separarsi.
Canticchia le storielle
in cui noi stavamo
a cavalcioni del tuo grembo
ad ascoltarti incantati
quasi trattenendo il respiro.
Le manine che sorreggevano
il visino vispo
mentre i piedi nudi
dondolavano
come batacchi di campane.
Mela adornata da una corona regale
Scatola di acini rosso vivo
Polpa acida e dolce contemporaneamente
Bocca, che ride, scrutando l’autunno.
…..Nell’orto adiacente la casa erano cresciute decenni prima due piante di uva fragola, coltivate dal nonno di Alessandro. Quest'ultimo un giorno, mentre vi stava spruzzando del solfato, osservando le loro foglie penso fra sé e sé: Queste piante godono di ottima salute e i loro rami allungati danno quasi l’impressione di essere sul punto di pregare. Sfiorando appena i piccoli grappoli, che qua e là cominciavano a pendere dalle viti, pensò inoltre che sarebbe sicuramente stata una buona annata e quindi ci sarebbe stata la sicurezza di produrre del buon vino, a differenza dell'anno bisestile, che era appena trascorso. Recitava infatti un vecchio proverbio: Anno bisesto, anno funesto.
Il nonno di Alessandro aveva pensato di piantare, accanto alle viti, anche un melograno, riparato dal muro della casa. Non era rinsecchito nemmeno durante i bombardamenti bellici e, per questa circostanza peculiare, era stato oggetto di speciali premure rispetto agli altri alberi. Era divenuto un simbolo di quella casa ed avrebbe assicurato ancora diverse fruttificazioni……..
…….«Aspetta che ti faccia i miei auguri e che ti dia un bacio», aveva risposto l’amica che, al contrario di Dosolina, minuta e bassa di statura, era di grossa corporatura. Le aveva dato uno strattone così forte, per abbracciarla, che rischiò di farle perdere l’equilibrio. Salutata l’amica, si avvicinò alla pompa dell’acqua e, sollevata per due volte la maniglia di ferro, ne aveva raccolta un po' in un recipiente. Riempito il vaso tombale, gli aveva disposto infine i fiori all’interno.
Recitata una preghiera per le anime dei morti, aveva cominciato a pedalare verso casa. Durante il tragitto, nei pressi del cimitero aveva scorto un campo di frumento, che stava ingiallendo, acquisendo una colorazione sempre più dorata. Tra le spighe facevano capolino qua e là dei gruppi di papaveri rossi, imbellendo quella distesa altrimenti monocolore. La donna, incantata dalla bellezza della natura, si era fermata a raccogliere un papavero, nato sul ciglio della strada e, piegandogli i petali verso il basso, era riuscita a creare la sagoma di una donna, così come le aveva insegnato sua nonna, quand’era bambina.
Una folata di vento aveva sparso nell’aria l’odore dell’erba medica rinsecchita, facendo tremare i deboli petali di quella sagoma, che teneva tra le mani……..
…….L’uomo, accomodandosi meglio sulla sedia, aveva iniziato il suo racconto.
«Allora, ragazzo, devi sapere che stavamo compiendo il viaggio di ritorno. Dopo un anno di guerra, eravamo partiti dalla Grecia con questa nave, dal nome “Galilea”, ed eravamo diretti in Italia, verso casa. La nave trasportava gli alpini del Battaglione Gemona, qualche carabiniere ed i marinai.
Anche quella sera tuo padre ed io ci eravamo accordati di coricarci in terza classe, nei pressi delle colonne portanti della nave. Quella decisione presa sarebbe risultata la nostra fortuna, perché verso h 23,00 il siluro di un sottomarino inglese aveva colpito la nave, centrandola in pieno. Nella grande cavità creatasi, l’acqua aveva iniziato a riversarvisi all’interno in grande quantità ed in pochi istanti rimanemmo al buio. Si avvertiva odore di fumo e si udivano le grida delle persone in pericolo. Quelli che, al momento del siluramento, si trovavano a dormire nelle immediate vicinanze della cavità, non si erano riusciti a salvare. Coloro, invece, che avevano preso sonno sul ponte della nave, hanno avuto la prontezza di accaparrarsi le scialuppe di salvataggio, gettarle in mare e calarvisi all’interno.
Nel frattempo la nave continuava ad inclinarsi sempre di più su di un fianco.
Celso ed io gridavamo, spronando gli altri di gettarsi in mare, ma senza alcun esito positivo. Essendo in grado di nuotare, noi non avevamo esitato a farlo. In mezzo a tutti quei frammenti di legno, eravamo riusciti, tastando, a trovarne uno abbastanza spazioso, tanto da potervici sistemare sopra.
Eravamo entrambi coperti da diverse ferite sul corpo. Per cercare di fuggire il più velocemente possibile, avevamo utilizzato la via più breve, ossia quella che circondava la cavità, che tuttavia presentava diverse sporgenze acuminate. Le ferite, appena entrate in contatto con l’ acqua salata, ci bruciarono in modo devastante. La nave, dopo ore di angosciante resistenza su di un lato, pian piano si stata inabissando, sparendo poi sul fondo del mare e trascinando con sè tanti soldati ormai esangui. Attorno al punto di affondamento si trovavano diverse scialuppe colme di uomini. Del resto, l’istinto di sopravvivenza era risultato talmente profondo, che ci avrebbe dato forza, per riuscire a far ritorno a casa dalle nostre famiglie, nonostante io e tuo padre fossimo aggrappati a quella zattera improvvisata, che ormai a fatica sosteneva a galla entrambi, a causa del continuo movimento ondoso. Qualche istante dopo si era diffuso un silenzio quasi assordante: la speranza iniziale stava cominciando a lasciare il posto al timore. La convinzione, che le forze ci stessero abbandonando, era sempre più intensa quando, all’alba del nuovo giorno, ci sembrava di aver scorto da lontano una nave, quasi un miraggio. Ma con mia grande gioia, non ci stavamo sbagliando. Quella nave era alla ricerca dei sopravvissuti al disastro…….
…….«Accomodati, Pia! Chiudi cortesemente la porta. L'avevo aperta, per far circolare un po’ d'aria e far sparire l’odore, ma sento freddo alla schiena».
Pia si era seduta, assaggiando i crostoli offertile e, senza nemmeno preoccuparsi di deglutire prima di parlare, aveva detto:
«Sono veramente ottimi. Io non riesco mai a trovare l’occasione per prepararne alcuni. Trovarli già pronti è davvero un piacere!».
La donna era sempre stata caratterizzata da una forte schiettezza e, quindi, non si sarebbe posta mai alcun problema a dire ciò che pensava. Questo forse poteva essere dovuto alla difficile ed infausta vita, che aveva trascorso, che tuttavia l’aveva temprata a tal punto.
Non appena fu messa al mondo, sua madre spirò a seguito delle complicazioni del parto. Oltre a lei, ancora neonata, la donna aveva altri due figli, rispettivamente di quattro e sei anni. Durante il primo anno, la piccola era stata affidata ai nonni, ancora in giovane età. Un giorno, i due fratelli maggiori appoggiarono Pia sopra ad un davanzale della casa. Se il padre non si fosse accorto in tempo del pericoloso scherzo, la bambina avrebbe fatto di sicuro una brutta fine. I due bambini avevano dato una spiegazione alla loro azione: la morte della loro madre era sicuramente da imputare alla nascita della sorella.
Poco tempo dopo, il padre si era risposato, ma la nuova moglie era solita picchiare tutti e tre i fratelli. Quando alla sera l’uomo rincasava dal lavoro, i figli cercavano di metterlo al corrente delle inconsuete misure educative della donna, ma l'uomo tendeva a credere alla versione di quest'ultima.
Un anno dopo, la moglie rimase incinta. Tanto insistesse, che alla fine il marito fu costretto, per quieto vivere, a portare i tre figli alla nonna, anche se cercò di non far loro mancare niente del necessario.
Il padre andava a far loro visita di nascosto dalla moglie e loro scoppiavano in lacrime, quando era costretto a lasciarli. Soprattutto Pia, la più giovane, si appendeva ai suoi pantaloni, tirandolo a sé, con gli occhi colmi di lacrime.
«Pia, prendine un po’ da portare a casa» le aveva detto Dosolina, porgendole un sacchettino contenente crostoli.
«Grazie, li accetto molto volentieri!»…….
…….Lo piantò addosso al muro, dove tuttora lo trovi, rivolto verso sud, in una parte di terra in cui non c'era marciapiede. Con dei chiodi e dello spago, era riuscito a legarne i ramoscelli al muro, perché potesse crescere sviluppandosi verso l'alto, come quando una mano ha le dita aperte.
Non si scordava mai di annaffiarlo. L’albero cresceva vigoroso e pian piano maturò, producendo molti frutti. Era diventato senza alcun dubbio il simbolo della nostra famiglia. Durante la seconda guerra mondiale, pur essendoci stati copiosi bombardamenti, era resistito nonostante qualche ramo lacerato. Dopo la morte di mio suocero, mi sono presa io cura di questa pianta, che ha quasi incorniciato l'esperienza della nostra vita in tutti questi anni. Col passare del tempo, come avrai avuto modo di venire a sapere, la casa è stata risistemata, ma non è stato fatto alcun lavoro di ristrutturazione al muro, addosso al quale è cresciuto il melograno…….
Prefazione
Anellina raccoglie momenti di vita suggeriti dalla natura, dalle ricorrenze consuete dell’amore, dalle vicende e dai ricordi famigliari e paesani.
Sono spunti di una graziosità unica, raccolti con una leggerezza lessicale incomparabile, ravvivati nei loro reconditi significati e, trasfigurati da un alone d’amore e di speranza.
Mons. Nicola Borgo
Presidente d’onore
Associazione David Maria Turoldo
E direttore del centro culturale
“Il ridotto” - Coderno
Voci
note che si dondolano
dentro una culla
di spirito e passione.
La melodia,
una scia di note
che si estendono
lungo il pentagramma.
Voci
fili pregiati
d’argento e d’oro
che si specchiano
nel cielo.
Voci che rimbalzano sui muri
diffondendosi
attraverso i campi
fin sotto le spighe
del frumento.
Voci
fiori che si rovesciano
dalla bocca
del tempo
che mai appassiranno
senza tempo
e senza età.
Desidero
ancora camminare
sopra l'erba fresca e morbida
come il velluto.
Percepire la terra
solleticarmi i piedi.
Annusare gli odori
trasportati dal vento
che stuzzicano il mio corpo
con delicatezza.
Ascoltare
la voce dell'acqua
scorrere serena
nel letto della roggia.
E contemplare
la meraviglia del sole
nascondersi
dietro i monti
mentre la sera
con la sua pace
sospinge fuori il buio.
Il glicine
attorcigliato
lungo il muro della casa
sembra
volerla abbracciare.
I fiori
come grappoli d'uva
color lilla
penzolano dai rami
come numerosi eleganti orecchini.
Così quell'angolo
anche se antico
pare vestito da festa.
Seduta
su una sedia di vimini
accanto la stufa
con la mantellina
appoggiata sulle spalle
è intenta a lavorare la maglia.
Gli occhiali spessi e neri
sono appoggiati
a metà naso.
Un'occhiata sopra le lenti
di tanto in tanto
per controllare il fuoco
e la cena.
Le mani
logorate dal tempo
lavorano veloci
quasi senza osservare
i ferri da calza.
La gatta cenerina
si avvicina
sbadigliando assonnata.
Poi si avvolge
a ciambella
sopra le sue ciabatte.
Ora nella stanza
si ode il russare
della nonna addormentata
coi ferri lasciati scivolare a terra.
La bestia
con un balzo
si accovaccia sul suo grembo
destandola di soprassalto.
Occhi che frugano
nel passato.
Lacrime di ricordi.
Nostalgia amalgamata
alla speranza.
Gioia di un incontro
per rivivere la cara ed indimenticabile giovinezza.
Erano quasi terminati i vecchi tempi degli anni ’70, ed Anellina c’è li racconta per ricordarli per sempre. Storia di Julia, così l’aveva appellata.
Con quel nome ha voluto richiamare l’arma degli Alpini, che da sempre è stata un collante alla terra friulana. Un segno di unità e pace.
Due righe di poesia e una storia di emigrazione tutta al femminile.
“Si era alzata una burrasca ed un gruppo di nuvole girovaghe spingendosi, avevano celato una parte della luna”. La nostalgia, si era nascosta.
Si menzionano i libri e l’iscrizione che sarebbe stata importante e invece serviva leggere, per evadere da un lavoro ripetitivo.
Le notizie di casa, fungevano a dare coraggio.
“Rondinella”, la chiamava suo padre, uccello di due paesi e la madre faceva tanti sacrifici per vederla vestita come tutti.
Il giovane lasciato al paese, era un amore di altri tempi, lontano romantico, importante; Daniele era da sposare!
Non molte volte bacia la fortuna, ma Julia vive il suo momento d’oro e diventa modella.
Questo romanzo si snoda tra estati di splendore e notti come la pece, in quella terra milanese.
Gilberta Antoniali
Introduzione
Non so se capita anche a voi, alle volte, di annusare un nuovo odore, o di scoprire una cosa nuova ed essere trasportati di colpo con la mente, in un tempo passato.
Ecco ciò che ho provato ed è stato motivo determinante che mi ha indotto a scrivere questo romanzo.
Il titolo del romanzo racconta ciò che la protagonista aveva vissuto nel passato attraverso i ricordi, gli oggetti a lei appartenuti, le persone care.
Tutto inizia con il suo ritorno a casa dopo un lungo tempo.
Julia, la protagonista, questo il suo nome, ritorna ad abitare nel suo paese natale.
Ritorna in età senile ma con la giovinezza nel cuore.
Mentre trascorrono i giorni, tutto le parla del suo passato.
Ogni singolo spazio attorno a lei “respira” dei momenti già trascorsi.
Momenti scolpiti nella sua mente, indelebili.
Ogni racconto è quasi una fotografia ricca di particolari, d’avvenimenti, una poesia di poche parole che esprime molteplici significati collegati tra loro.
L’Autrice
La luna tonda padroneggiava nella volta celeste e, beffarda si specchiava nell’acqua limpida della fontana, collocata al centro del paese. Tutt’attorno regnava la quiete e le case, con le imposte serrate, parevano riposare ad occhi chiusi. Improvvisamente un cane, abbaiando, aveva interrotto quella pace. Quasi tutti gli abitanti dei borghi si erano coricati. Delle folate di vento si erano levate impetuose ed un gruppo di nuvole vagabonde, spingendosi una con l’altra, avevano nascosto un angolo della luna. Per giungere a casa di Paolo, padre di Julia si costeggiava un muretto ricoperto di edera sempreverde che, era così folta da nascondergli i mattoni.
Quella mattina Julia, preparati i bagagli vicino alla porta di casa, aveva poggiato sopra una giacca, avvertendo un po’ di freddo d’inizio d’autunno. Sua madre l’aveva avvisata che là a Milano la nebbia c’era spesso, quindi che si tenesse coperta per ripararsi dall’umido fastidioso. Il giorno prima, Daniele le aveva messo in mano un pacchetto; lei lo aveva aperto con curiosità ed all’interno… meraviglia, una collanina senza tante pretese ma che nella medaglietta a forma di cuore, erano incise le loro iniziali. «Grazie» aveva detto abbassando il capo per farsela subito allacciare al collo.
In fondo alla strada, dove abitava la famiglia di Julia, c’era un negozietto di ortofrutta. La gestiva una coppia con aveva due bambini. Lì la ragazza aveva fatto un po’ di esperienza e dopo, era rimasta amica con la proprietaria. Così ella si era offerta, avendo il telefono, che ancora pochi possedevano di far telefonare Daniele a Milano, il quale abitava in quella via. La mattina del suo compleanno si era svegliata felice ma d’altro dispiaciuta per non essere a casa a festeggiare con i suoi. Angela, per questa ricorrenza, era d’abitudine cuocere la torta farcendola con le noci nel forno: Julia da bambina, godeva a rompere i gusci di quei frutti. Ogni tanto ne metteva un pezzetto in bocca e rosicchiandolo, faceva così rumore che il loro cagnolino tirava le orecchie con la testa inclinata. Allora lei ne gettava un pezzetto ed egli si fiondava a mangiarlo, scodinzolando felice. Questo dolce era così buono che in un attimo spariva. - Come si apprezza di più queste cose quando si è lontani da casa - aveva riflettuto Julia, inghiottendo vogliosa. - Quando scriverò alla mamma, dovrò chiederle se ne preparerà una per quando rientrerò a Natale -. Quella sera, Daniele era giunto a casa della fruttivendola, che stavano terminando di cenare.
I chilometri si accorciavano sempre più e la destinazione non era tanto lontana. Improvvisamente le prime case della periferia del paese, avevano fatto capolino in mezzo ai gelsi e alle vigne che adesso, inverno, essendo spoglie sembravano tanti cristi in croce. «Ecco là la nostra stazione» aveva detto Linda. Prese le valigie si erano avvicinate all’uscita, in attesa di scendere. Con uno stridio dei freni il convoglio si era bloccato, in quel posto tanto agognato. Nei pochi mesi che era stata via, a Julia le erano parsi anni e camminando a fianco a Linda, apprezzava ogni cosa che vedeva come la scoprisse la prima volta. «Si può abitare in città belle e importanti ma per me, non ci sono posti come dove si è trascorsa la propria gioventù» aveva commentato a voce alta. Ma Linda alzando le spalle: «Per me qui o là è la stessa cosa».
…Trascorrevano i mesi uno dopo l’altro e Julia aveva proposto al suo Daniele di trasferirsi a Milano, perché un conoscente doveva andare in quiescenza. Per questo, avrebbe lasciato la Ditta d’idraulica ben avviata e con due dipendenti; Daniele era molto interessato alla cosa perché quello era sempre stato il suo sogno. Aveva valutato molto il da farsi, consigliato anche dalla sua famiglia e al pensiero di avvicinarsi alla sua ragazza, non gli avrebbe fatto paura nulla. Julia le aveva telefonato per conoscere la decisione presa. «Si stella mia, ho deciso di venire a Milano. Ora dobbiamo pensare di preparare le nozze e cercare un appartamento per vivere con dignità. Tra qualche giorno prevedo di venire là a parlare col titolare della Ditta». Alla sera la giovane aveva telefonato lungamente ai suoi, e chiarito quello che aveva deciso con Daniele «… E ora mamma devo preparare la dote per potermi sposare» aveva concluso. «Figlia, è giusto che tu vada per la tua strada, anche se soffro che tu sia così lontana». Poi aveva passato la cornetta a suo padre: «Allora “rondinella” hai deciso. Farai come quel uccello che lascio il suo nido. Però qui rimarrà sempre il nido della tua gioventù e quando potrai o sentirai la nostalgia struggente, noi ci troverai sempre, sai». «Grazie a tutti e due, del vostro affetto e comprensione».